Valvola di sfogo per un periodo di ricostruzione. A volte sono una chiavica, a volte mi pregio di scrivere cose interessanti. Accomodatevi e se ne avete voglia commentate e giudicate. Se volete scendere nel personale scrivetemi pure: andrea_carraro@yahoo.it

mercoledì 25 aprile 2007

In the Flesh

Ecco per voi un altro capitolo delle mie memorie rock n' roll.
Buona lettura.

BLACK CHRISTMAS

Il 24 settembre 1980 si sono consumati due drammi diversi.
Quella notte John Bonham, batterista dei Led Zeppelin, moriva nella casa di campagna di Jimmy Page dopo essersi fatto 40 bicchieri di vodka in 4 ore.
Qualche migliaio di chilomteri più in la, il matrimonio dei miei genitori andava a bagno per svariati motivi, tra cui l’alcool, la gelosia, questioni irrisolte con suoceri e suocere e chi più ne ha più ne metta.
Per quel che mi riguarda la mia vita non sarebbe più stata la stessa.
Era il giorno del trentottesimo compleanno di mio padre e per via di un arrosto fresco di macelleria che buttò nella spazzatura in preda all’ennesimo attacco di gelosia nei confronti di mia madre, cominciò il litigio che pose fine ad un matrimonio difficile fin dagli inizi.

Quando guardo le foto di mio padre in quegli anni vedo un pochino me stesso.
Si chiama Giorgio, ed è un buon uomo cresciuto nella famiglia sbagliata e, anche se i suoi parenti sono riusciti in qualche modo a guastargli l’esistenza, lui ha sempre cercato, quando ne era in grado, di migliorarsi e di affrancarsi da quei pesi che l’hanno sempre tirato verso il fondo.
Mio padre, anche se ancora oggi non fa mistero del suo odio per Mick Jagger, è sempre stato un tipo molto rock n’ roll.
Se devo abbozzare uno schizzo di lui, non posso non ritrarlo con i suoi stivaletti e il giubbotto di pelle, i jeans a zampa, la camicia sbiadita e i suoi riccioli neri fino alle spalle.
Da quel che ne so mi sono perso i tempi migliori, quando girava per Genova a bordo di una Porsche Carrera argentata accompagnato sempre da belle ragazze e in compagnia delle persone più assurde che potevi incontrare nella Genova degli ultimi anni ’60.
Mio padre è un meccanico, ma non di quel tipo che oggigiorno attacca la centralina della tua utilitaria giapponese ad un personal computer per regolargli il minimo, no, lui era uno specialista nel preparare i motori di macchine nate per ingrassare i paesi dell’OPEC.
Tutti i giorni la sua officina pullulava di figli di papà smaniosi di farsi truccare la loro Porsche, di spacciatori che vendevano ai figli di papà l’eroina da consumare nella loro Porsche, di aspiranti musicisti che speravano di scroccare un po’ di roba ai pusher e così via.
Insomma, era un ambiente piuttosto curioso, e la cosa più assurda era che mio padre si muoveva in mezzo a quel gruppo eterogeneo senza farsi minimamente toccare ne dalle tentazioni ne dalle manie di grandezza.
Lui è sempre rimasto li, pronto a raccontare una storia divertente o un aneddoto curioso su quel cliente che si faceva scorazzare in Maserati da Genova a Napoli o del suo amico che si era spezzato entrambe le gambe cadendo dalle mura di cinta di un carcere in Grecia, dove era rinchiuso per traffico, e riaccompagnato a braccia in cella, in preda a dolori lancinanti, dai zelanti secondini.

In fondo ho preso molto da lui.

Quando i miei si separarono, anche se la sua officina si trovava di fronte al palazzo dove andai a vivere con i miei nonni, non vidi più mio padre per molti mesi, o meglio, lo vedevo sempre, ma ero troppo spaventato per andare da lui.

Quando arrivò la primavera dell’81 io e mio fratello iniziammo a passare qualche weekend con lui e fu durante quelle giornate che ebbi il primo assaggio cosciente di qualcosa che poteva avvicinarsi al rock e al tempo stesso che iniziai ad odiare con tutto me stesso i Pink Floyd.

Gli amici di mio padre, un gruppo di sconvoltoni di Vernazzola, altro borgo marinaro oggi molto “in” ma all’epoca fulcro di una scena assolutamente dedita alla vendita ed al consumo di qualunque sostanza stupefacente, decisero che dovevano fare qualcosa per tirarlo su dalla mazzata del divorzio e, pertanto, lo caricarono su di un furgoncino Volkswagen con destinazione Dortmund, per assistere ad una data del tour di The Wall dei Pink Floyd.
Dovete capire che, seppure la sorella di mio padre si fosse sparata tutta la Swingin’ London, uscendo addirittura con Keith Emerson ai tempi dei Nice, e tutt’oggi ne porta addosso le conseguenze, il mio genitore non era mai stato ad un concerto in vita sua, e scegliere come battesimo del fuoco i Pink Floyd non è stata proprio una furbata da parte dei suoi amici, soprattutto considerata la tortura piscologica alla quale siamo stati poi costretti io e mio fratello nei mesi successivi.

Io e mio fratello eravamo ancora piuttosto scossi per come era andato il divorzio e ci mancava soltanto passare il weekend con un padre che era diventato una sorta di versione moderna del Vecchio Marinaio di Samuel Taylor Coleridge, costretto da forze misteriose a raccontare a chiunque come fosse andato il concerto dei Pink Floyd.

Ogni volta che salivamo in macchina istantaneamente partiva In The Flesh a tutto volume e iniziava la telecronaca in differita dell’esibizione dei Pink Floyd “vedete, qui veniva fuori un letto gigante e qui volava un maiale gonfiabile su tutto il pubblico”.

Andò avanti così per mesi. Alla fine sapevo anche di che colore erano le mutande di Roger Waters quella sera.

L’unica cosa positiva di questo improvviso innamoramento per il rock da parte di mio padre fu che anni dopo chiese alla sua convivente, poi sua moglie e poi ancora sua ex moglie, di regalargli una chitarra per imparare a suonarla, cosa che non fece mai, e quella chitarra rimase nel suo astuccio per anni fino al giorno in cui per la prima volta andai a trovare mio padre nella sua nuova casa nel 1988.

Dovete sapere che qualche anno prima mi ero fissato nel voler imparare a suonare il pianoforte, megalomane come al solito, senza ottenere grandi risultati, e mio padre continuava a darmi del borghese per questa scelta, anche se avevo solo 11 anni, e insisteva perché io imparassi a suonare la chitarra, strumento più pratico e più semplice da suonare, ma niente da fare.

Mi diceva anche che si beccava della figa suonando, cose che per me all'epoca era pura fantascienza e che tuttoggi devo ancora sperimentare.

Come dicevo prima, in quella fatidica sera dell’88 mi recai a casa sua con mio fratello e, notata la chitarra oramai più vicina ad una mummia che ad uno strumento, chiesi se potevo suonarla un pò.

Le mie nozioni chitarristiche si limitavano a suonare il riff di Smoke On The Water, imparato durante i miei anni di frequentazione dell’azione cattolica, e poco altro, ma dopo mezz’ora ero già diventato completamente dipendente dallo strumento.

Quella sera tornai a casa con la chitarra di mio padre, con grande incazzatura da parte della sua compagna.

In cuor mio pensai “cazzi loro”, io avevo la chitarra ed era l’unica cosa che mi importava.

Nei mesi successivi mi dedicai anima e corpo ad imparare a suonarla, stranamente avevo scoperto le accordature aperte ancora prima della standard e le sperimentavo ogni domenica dopo la messa a casa del mio amico Bruno.

Suo padre era un grande appassionato di bluegrass e dixieland, e io e lui passavamo ore mandando in saturazione i suoi preziosissimi Fender Super Reverb degli anni '60 facendo un casino della madonna per la gioia dei vicini di casa.

Tutto filava liscio in casa mia, in fondo una chitarrina classica non ha mai fatto del male a nessuno, ma a settembre io e mio fratello decidemmo che era venuto il momento di comprare una chitarra elettrica.

C’era però un piccolo problema, tutte le chitarre costavano un occhio della testa, ma un giorno scoprimmo che una marca di chitarre coreane, la Vester, vendeva repliche di chitarre migliori, come la Fender Stratocaster, a 175.000 lire, neanche la metà del nostro budget per i regali natalizi, e così ci mettemmo ad implorare i nostri genitori affinché ce la comprassero assieme ad un piccolo amplificatore.

Le scene patetiche che io e Sandro recitammo per tre mesi dovettero esasperare i nostri genitori e così arrivò quello che nel loro diario, e dei nostri vicini, potrebbe essere definito il ‘Natale Nero’.

La chitarra che avevamo scelto era un’imitazione della classica Kramer di Eddie Van Halen, rossa a strisce bianche, la chitarra più tamarra del mondo, ma ai nostri occhi sembrava una vera opera d’arte.

La mattina del 25 dicembre 1988 il distorsore fece l’ingresso in casa nostra e, se io e Sandro potevamo ancora aspirare ad un qualunque tipo di carriera scolastica, quello fu il giorno in cui tutto passò definitivamente in secondo piano.

"Rock n’ roll is here to stay" diceva qualcuno e, anche nel nostro caso, non se ne è più andato.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Chuuuch!
Preeaach!
Tabernacle!